Velut Luna
BLUES - 30° ANNIVERSARY
BLUES - 30° ANNIVERSARY
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BLUES - 30° ANNIVERSARY (CVLD395)
Autore: AA.VV.
Esecutore: AA.VV.
Disponibile nei supporti: LP, File HD
Tracce
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LATO A – 18:12
01 – So Long (F.Ranghiero, F.Mazzaron) 7:32 / reg. 03-2008
Four Fried Fish
02 – Five Short Minutes (J. Croce) 3:23 / reg. 07-2012
Barbara Belloni, voce
Four Fried Fish
03 – Tin Roof Blues (L. Roppolo, P. Mares, B. Pollack) 3:14 / reg. 10-2000
Tiger Dixie Band
04 – I Ain’t Got Nothin’ But The Blues (D. Ellington) 3:59 / reg. 10-2005
Cristina Sartori, voce
Stefano Lionello, contrabbasso
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LATO B – 19:33
- 01 – Rollin’ Stone (Mc Kinley Morganfield) 5:18 / reg. 03-2008
Four Fried Fish
- 02 - Freedom (R. Ford) 6:52 / reg. 03-2018
Michele Giacomazzi, chitarra Francesco Giacomelli, basso elettrico
Diego Vergari, batteria
- 03 – Come Together (J. Lennon, P. McCartney) 3:36 / reg. 01-2010
Yasmina and Bad Songs
- 04 – Cross Road Blues (R. Johnson) 3:46 / reg. 07-2023
Max Prandi, voce e chitarra
Enrico Merlin, chitarra
1/4" Master Analogico realizzato nello studio VLS di Naquera (Spagna), partendo dalle registrazioni originali sia analogiche che digitali, queste ultime realizzate in alta risoluzione nativa, PCM wav 88.2kHz / 24bit
Produzione: VELUT LUNA
Produttore esecutivo: Marco Lincetto
Ingegnere del suono in registrazione: Marco Lincetto
Missaggio e masterizzazione: Marco Lincetto
Fotografia interno: Marco Lincetto
Impostazione grafica: Maurizio Ciato per Studio L'Image
Era il primo di luglio del 2009.
Decidemmo di muoverci da Memphis sul presto, otto, otto e mezza della mattina; perché da quelle parti, in quel periodo, il caldo ti uccide. Umido, tanto che come esci in strada sei già bagnato di sudore, anche se è mattina presto.
La prima tappa era relativamente vicina, Clarcksdale, la capitale morale del Delta del Mississippi, la capitale morale del Blues. Centoventicinque chilometri tutti lungo la leggendaria Highway 61: sì, quella che ha cantato anche Bob Dylan, anche se lui la intendeva in direzione inversa rispetto a noi, da sud a nord.
Sull’asfalto davanti al nostro pulmino Ford bianco, la strada, già arroventata dal sole, ci faceva apparire immagini immaginarie, miraggi di riflesso, all’orizzonte. E insieme a noi c’era il nulla, nessuno, solo campi arsi a destra e a sinistra.
Verso le dieci e mezza vediamo finalmente la freccia che indica la deviazione per Clarcksdale, e la imbocchiamo.
La cittadina pare deserta, le strade si distendono desolate in mezzo a filari di casette di legno decisamente male in arnese, con il variegato popolo afro-americano già sfiancato all’ombra risicata di porticati fatiscenti che avevano certamente visto tempi migliori. E la mia sensazione è strana, imperscrutabile, ancorchè decisamente inquieta, forse anche per via di quegli sguardi non minacciosi, ma piuttosto stupiti, che guardavano quel corpo decisamente anomalo che eravamo io e i miei sei amici dentro a quel pulmino bianco Ford, troppo lindo, moderno e intonso, che decisamente stonava in quel contesto.
Dopo un po’ le casette finiscono e ci ritroviamo per così dire “in centro”: palazzine di quattro o cinque piani, pure queste un po’ decrepite, che si allungano all’interno di pochi blocks, squadrati. E senza un albero, così che il sole ha mano libera per far piazza pulita dei pochi sentimenti rimasti.
Giriamo a destra, ancora a destra, poi a sinistra: ed appare la John Lee Hooker Lane: è la strada, breve, che porta al Delta Blues Museum, il tempio del Blues.
Ora, noi europei siamo abituati ad un concetto di “museo”, che prevede austeri palazzi monumentali, tirati a lucido, con controlli armati per l’accesso, telecamere e tutto il campionario del controllo…
Lì, niente di tutto questo.
Una palazzina di mattoni rossi, bassa, discretamente manutenuta, costruita a fianco di una vecchia linea ferroviaria abbandonata, con i binari arruginiti, e con una tettoia con sotto la scritta “Delta Blues Museum”, pure lei arruginita.
Nei musi ti aspetti un tranquillo movimento di avventori, attenti e discreti, con magari la classica scolaresca gioiosa e un po’ rumorosa: lì, ancora, niente di tutto ciò. Deserto. Nessuno. Solo noi.
L’esposizione era tutta articolata all’interno di un percorso dentro ad un unico grande salone, dal soffitto non così alto come ti aspetteresti. E quello che era esposto erano memorabilia comuni: qualche strumento “appartenuto a”, qualche ninnolo, tantissime fotografie, storiche e non, molto belle, devo dire.
E poco altro.
Il giro si conclude rapidamente, ma l’inquietudine di prima, anziché placarsi, aumenta. C’è QUALCOSA che non riesco a focalizzare. Ad un certo punto, sento il suono cadenzato di una batteria, tipo qualcuno che sta provando qualche passaggio. Viene dalla zona dell’ingresso, ma lontano, dal basso, forse da qualche oscura cantina. Non scoprirò mai chi e dove era.
A quel punto però mi accorgo di un vecchio, ma proprio vecchio, afro-americano, seduto dietro al banco di quello che sembra un bar; sta leggendo, distrattamente, un giornale sgualcito, mentre assapora una mefitica sigaretta, dall’odore, il puzzo, decisamente forte per uno come me, che non fuma.
Mi viene immediato e naturale, dal profondo, la voglia, la necessità, di fargli una domanda, che mi ronza dentro da tanti anni, relativa ad una delle più famose leggende del blues, che racconta di come un bel giorno alla fine degli anni ’20 del ‘900, Robert Johnson, che era un povero raccoglitore di cotone senza arte né parte, nella campagna vicino a Clarcksdale incontrò il Diavolo – sì, proprio quello lì – che gli propose un patto: lui, il Diavolo, gli avrebbe garantito il successo in cambio della sua anima. E Johnson accettò. E il resto della storia è noto.
Bhè, ecco allora che mi viene la domanda e aprendo bocca con fare incerto, chiedo al vecchio: “Mi sai dire dov’è il Crocicchio del Diavolo e di Robert Johnson?”
Il vecchio non batte ciglio… ma lo alza, impercettibilmente, mentre contemporaneamente abbassa il giornale, squadrandomi, in silenzio. Un silenzio durato qualche eterno secondo, in cui in realtà il tempo si era fermato. Poi, socchiudendo le labbra bagnate dal sudore e arse dal fumo, mi disse: “Ehi guy… It’s Everywhere…!”
E in quel momento, per la prima volta nella mia vita, compresi cosa significava la parola “Blues”.
E il senso di inquietudine, scomparve nel pericoloso ghigno che comparve sul volto imperturbabile del vecchio.
I musicisti ed io siamo persone fortunate, per aver ricevuto il privilegio di vivere queste emozioni difficilissime da raccontare a parole, ma che spero possano essere almeno un po' veicolate dalle tracce sonore rimaste nei solchi dei dischi. Per sempre.
Grazie a Tutti,
Marco Lincetto
Dedico questo progetto a quel vecchio Afro-American col giornale,
che mi ha fatto finalmente capire cos’è il BLUES.
ottimo
Inanzi tutto è il primo supporto che acquisto dal vostro catalogo.
Dal punto di vista musicale,ottima la scelta dei brani ed eccellente la qualità audio,già percepibile al primo ascolto.
Considerando la cura nell'impostazione del confezionamento,la copertina e la grafica,se si amano i supporti fisici,come il sottoscritto,il vostro è un prodotto eccellente.
Provata questa qualità,diventa difficile stare lontani dal vostra offerta di catalogo.
Complimenti.
Ottimo vinile
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